
Ho terminato la lettura dell’ultimo libro dell’antropologo calabrese Vito Teti, “La restanza” (Einaudi), un neologismo dell’autore a cui già accennavo qualche articolo fa, in un pensiero scritto un mese prima che scoppiasse la pandemia. Anche in quella foto, per puro caso, c’erano persone che si godevano un po’ di relax all’aperto, nella pausa di un festival che affrontava in diversi linguaggi le stesse questioni.
È un tema che a me sta molto a cuore, che vivo sulla mia pelle e che è costante oggetto delle mie letture degli ultimi anni. Un argomento molto complesso che Teti affronta col piglio preciso dell’antropologo, errante e nostalgico del luogo, una dicotomia di cui non si è mai liberato nemmeno lui e che non permette di risolvere l’irrequietezza di chi nasce in una terra di migranti. Non sempre condivido le sue argomentazioni, a causa probabilmente di un percorso personale differente che non mi ha mai legato in maniera irrimediabile a un punto fisico e mentale della terra in cui sono cresciuto, ma rimane una lettura di grande interesse.
Mi ha aiutato, ad esempio, a comprendere quanto fuggire e rimanere non siano poi due azioni e due scelte così tanto diverse, anzi, si potrebbero persino ritenere speculari. La restanza, che implica un impegno rigenerante di se stessi e del luogo che si vive e che non ha nulla da condividere con la pregiudiziosa figura di chi sceglie di subire un destino, è una sfida che lascia ferite, che rende spaesati, che non libera dalla nostalgia del ritorno.
“Migrare, partire, fuggire, restare, tornare abitano tutti dentro di noi, in radicale conflitto”, una condizione che il sapiens è “biologicamente e culturalmente destinato a vivere”. Gli enormi cambiamenti che si prospettano in futuro, di cui la pandemia ha rappresentato un’esclusiva anteprima, ci porteranno sempre di più, e in massa, ad affrontare questi conflitti.